lunedì 5 agosto 2013

La luce del padre


La luce del padre vale sette volte la luce. Si tratta di un proverbio giapponese. Vale molto più delle nostre verbosità sulla vera essenza di quello che sono e rappresentano i nostri papà. Del resto il popolo nipponico, è storicamente dotato di un’eleganza stilizzata e essenziale. E' solito forgiare le parole come i suoi ikebana leggeri e iconografici, come il regista Kurosawa e i suoi Sogni.

Per cui tenterò anche io a raccontare le cose alla loro maniera, sperando di riuscirci almeno in maniera dignitosa e decente sia per me, ma più di tutto per il mio papà che non c’è più. 

Che se ne è andato via nella domenica più torrida dell’estate. Eravamo insieme al pronto soccorso dove i muri verde acqua parzialmente scrostati, avvolgevano inquietanti le nostre ansie, e sembrava ci avessero fatti precipitati in un gigantesco acquario.

Dove tutto fluttua, dove non è detto che finiti lì, poi si possa riemergere. Dove la sensazione di sospeso è soffocante. Come soffocanti erano le luci al neon, innaturali, fredde e metalliche che a fissarle mi davano l’impressione che più passava tempo e più sembrava divorassero i raggi solari.

Purtroppo non è andata bene. Nessun happy end stavolta, perché il destino ha voluto questo. Ora mi restano un groppo che non va né su né giù e i ricordi. Ovvio che siano infiniti, avendo comunque avuto la fortuna di aver trascorso moltissimo tempo con lui. Però tra tanti ce ne sono un paio che mi sono balenati in mente, non appena ho avuto notizia della sua morte.

Nel primo mi rivedo bambina, mentre sono al piano con mio papà che mi insegna i primi rudimenti dello strumento. Ho quattro anni mentre provo a suonare, con una certa fatica Frà Martino Campanaro. Disgraziatamente non ho avuto né la sua costanza, né il suo talento e dopo qualche anno ho smesso di suonare. Diciamo che come pianista non gli ho dato grandi soddisfazioni.

Nel secondo sono leggermente cresciuta. Ho  sette anni. In un domenica di inizio giugno c’è il saggio di poesia per la fine della scuola. Sono presenti tutti dal sindaco, al farmacista, al prete.

Quando tocca a me, impugno il microfono, che a momenti è più grande di me, e mio papà e mio zio mi fanno un cenno di approvazione. Allora mi faccio forza e comincio a snocciolare la mia filastrocca: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarneri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez, Corso.” Come ho terminato, lo sbigottimento è generale. Solo i maschi della mia famiglia applaudono con convinzione sincera. Saranno gli unici a farlo. Mentre tutti gli altri scuotono la testa e si avvicinano a mia madre per dargli pacche consolatorie sulle spalle, della serie non prendertela.

Finite le esibizioni la mia severissima maestra con sguardo truce mi apostrofa “Guarda che dovevi esibirti in una poesia. Non elencare la formazione della squadra di calcio tua e della tua famiglia.” Ma stavolta non mi fa paura, so che c'è chi mi protegge. E poi il coraggio viene da sé, come tutte le volte in cui penso di avere ragione. Le rispondo tranquilla “Hey signora maestra non è mica una squadra di calcio qualsiasi. E’ la Grande Inter. E la Grande Inter è bella. Al momento lei è spiazzata. Io  me ne vado soddisfatta, mio papà e mio zio ridono di gusto.

Del resto se sono interista lo devo a lui che mi ha insegnato a memoria la formazione dell’Inter di Herrera, che era un bauscia fatto e finito. In compagnia del nonno mi raccontava le gesta di Benito Lorenzi, l’olandese volante Nyers e della Wandissima. Da piccina mia sorella si addormentava non appena le leggevano le favole classiche. Invece io no, cominciavo a dormire della grossa al racconto dei derby, delle sfide con la Juve, delle partite favolose di notte e eventi del genere.

Mi ricordo le sue telefonate in cui ci sentivamo in occasione delle mie trasferte: Amburgo e Colonia legate al periodo di Kalle e Spillo, Roma con Lothar e Walter, Parigi quando si vinse la Uefa con Ronaldo e Zamorano, fino alla notte della Final Madrid. 

Mi ricordo le domeniche passate, prima di andare allo stadio, con bicchieri, posate e quant'altro il tutto utilizzato per surrogare i giocatori, trasformando il tavolo della cucina in un campo di calcio, dove sperimentavamo le tattiche prima della partita vera e propria. Ora che tutto questo è finito che malinconia: è sulla tovaglia c'è il deserto .. non c'è più un portapepe che raffigurava Spillo, Zamorano, Ibra o Eto'o. E non ascolterò più nemmeno il suo mantra: "C'è la partita? A che ora è? X ce la fa? Chi abbiamo comprato?" 

Sciaguratamente negli ultimi mesi con l’aumentare delle sue difficoltà fisiche determinate dalla vecchiaia, nemmeno le notizie che riguardano la nostra squadra si può dire fossero di grande conforto. Anzi, contribuivano a immalinconirlo ulteriormente, per lui non era ammissibile elemosinare i giocatori in prestito, sentire parlare di Cavani e ritrovarsi Biabiany. Soffriva di brutto quando si palesava l’impossibilità di acquistare una star del pallone, perché la benzina era finita in tutti i sensi.




Mi diceva sempre più spesso: “Siamo l’Inter, un capolavoro. E se io non posso più permettermi di avere la Gioconda in casa, la vendo a malincuore, ma la cedo.” Altrettanto vero che tanta era la stima che nutriva nei confronti di Angelo Moratti, quanto era lo sconcerto che aveva rispetto al figlio Massimo. Da lui ritenuto un figlio di papà fatto di gomma americana.

Del resto lui apparteneva alla corrente di pensiero che il maggior merito del trionfo della Tripletta fosse da attribuire a Mourinho e ai giocatori e che il suo abbandono avesse fatto riemergere la natura del nostro presidente. “L’è cùmpagn a che gh’era calciopoli. Ancà pégg .. gh’à pù de danè … L’è sempre stà un pataveérta. Oh pùareta la nostra Inter..”

Ecco in parte riesco a trovare un elemento, per quanto impercettibile, di consolazione nel fatto che se non altro non ha dovuto assistere al prestito di Wallace dal Chelsea nemmeno fossimo il Livorno o il Chievo della situazione. Se non altro non dovrà amareggiarsi per l’ennesimo infortunio del muro Samuel. Gli saranno risparmiati gli ennesimi magheggi del nostro direttore generale, uno che sembra più pensare ai cazzi suoi che al bene della squadra. Se non altro non  dovrà confrontarsi con le brutture che comporta questo momento di declino.

Ora spero sia, da qualche parte con Peppino, che come Giacinto, conosceva di persona anche in questa vita, magari ci potrebbe essere lì anche Angelo. Tutti loro a pensare e ricordare l’Inter come l’ha sempre vissuta lui: da Meazza in poi. Tra alti e bassi pazzeschi, ma con tanti trionfi, tanti campioni da giocata da prezzo del biglietto.

Nel cassetto dove sono riposte le foto di famiglia, ne ho trovate moltissime in cui è ritratto con giocatori dell’Inter, specialmente durante il periodo del Trapp. C’è n’è una bellissima in cui sorride insieme a Klinsmann, certamente non il più grande dei fuoriclasse che sono passati da qui, ma sicuramente una persona splendida e lieve. E’ un’immagine che trasuda fiducia nel futuro e allegria, fa bene al cuore. Così lo voglio ripensare. Ciao papà.

p.s. Alla società tutta: ora che il mio papà non c’è più, almeno per lui e quelli come lui, fate in modo di non continuare a far dannare e imprecare anche chi è altrove. Perché se non ci meritiamo noi questo presente, a maggior ragione non se lo merita chi ha speso una vita intera a tifare per questi colori e ne ha fatta una ragione primaria della propria esistenza. Se non ce la fate più, abbiate l'onestà e la correttezza di cedere il passo.