A chi pensa che il calcio sia solo un business non piacerà di certo il romanticismo e le questioni di passione che muovono migliaia di persone a fare delle scelte e dei sacrifici per la squadra del cuore. Per scelte e sacrifici intendo non solo il viaggio disagiato di chi come me vuole esserci, ma anche chi per svariati motivi allo stadio non ci viene ma litiga con la famiglia e la ragazza, perché non vuole uscire preferendo la partita o salta anniversari e cerimonie di vario tipo sempre in funzione del match.
Premesso che nel mondo della rete bisogna prendere tutto con il beneficio d’inventario e sicuramente lo stesso vale per chi mi legge, mi incuriosisce leggere le prese di posizione di diverse persone che commentano articoli inerenti alla contestazione dei laziali domenica scorsa o poco più datata, la nostra contro lo scambio Guarin-Vucinic.
Oltre alle solite affermazioni di parte, mi salta all’occhio chi chiede di lasciare in pace le società di fare il loro mercato, di prendere le decisioni che ritengono più opportune, e che non bisogna interferire nei loro affari. Dobbiamo quindi tutti subire passivamente ogni scelta, e in modo molto ebete osservarla con sguardo perso applaudendo a prescindere come delle capre, mentre in mano ci hanno messo forzatamente un panino e magari abbiamo speso qualche soldino al negozio ufficiale perché quello conta.
Facendo un inciso, non posso certo trascurare i rapporti che ho per lavoro con persone di ogni età, classe sociale e provenienza. Durante queste conversazioni con rammarico prendiamo atto che tempo fa i rapporti umani e anche nel lavoro erano improntati da quella “umanità” che faceva sentire l’operaio meno “basso”, il padrone meno padrone, e si riusciva a essere più felici anche con poco.
Bastava andare allo stadio e stare in piedi, non si chiedeva come alcuni asseriscono il confort esagerato e il silenzio, ma l’aggregazione e il divertimento erano alla base di tutto e forse si era più tifosi, più partecipi. Come per esempio è accaduto a me a otto anni, consideravo i giocatori i miei migliori amici forse perché vedevi che Zenga, Bergomi, Ferri e Berti ci mettevano in campo l’anima e indipendentemente dai risultati non avresti mai potuto fare a meno di loro.
La sciarpa nerazzurra era parte integrante del mio abbigliamento a scuola sebbene mi rendo conto sia stato più facile portarla a otto anni, anche nelle stagioni tristi era assolutamente immutato il mio senso di appartenenza., rispetto a ora che di anni ne ho trentadue.
Non che attualmente sia io mi senta meno tifoso, ma è questo concetto è mutato privilegiando sempre quei valori di un tempo e non considerando più nessun giocatore (e per nessuno intendo NESSUNO) un amico bensì un mero lavoratore.
Quindi, tornando a noi: c'è malinconia per i tempi che furono, quando questa identità era all’apice, e soprattutto nel sentirsi rappresentati dal proprio club. Il senso di sentirsi partecipi all'interno della propria azienda, e di tutte le altre situazioni che riguardano l'aggregazione, oggi ha lasciato purtroppo il posto al business e alla distruzione dei sentimenti in virtù della cinica logica del denaro.
Grazie al cielo che ci sono ancora persone che non accettano questo stato di impoverimento morale… e allora auspico che gli investitori provenienti da ogni parte del mondo capiscano che non servono poi troppi fondi per far realmente felici i tifosi... perché altrimenti vivremmo sempre di più in quel mondo virtuale, svuotato.
Ho la viva speranza che questo discorso non sia applicabile solo al calcio ma anche nella vita, magari insegnando ai propri figli che giocare con coetanei in cortile con un pallone e con porte improvvisate, è sicuramente più bello che misurarsi con i videogames della play.